Il territorio

Er deserto

Dio me ne guardi, Cristo e la Madonna
D'annà ppiù ppe ggiuncata a sto precojjo.
Prima ... che posso dì? ... pprima me vojjo
Fa ccastrà dda un norcino a la Ritonna.
Fa ddiesci mijja e nun vedé una fronna!
Imbatte ammalappena in quarche scojjo!
Dapertutto un zilenzio com'un ojjo,
Che ssi strilli nun c'è cchi tt'arisponna!
Dove te vorti una campaggna rasa
Come sce sii passata la pianozza
Senza manco l'impronta d'una casa!"
L'unica cosa sola c'ho trovato
In tutt'er viaggio, è stata una bbarrozza
Cor barrozzaro ggiù mmorto ammazzato.

Con questi versi del 1836, Giuseppe Gioacchino Belli descriveva la desolante realtà della campagna romana. Si trattava di uno scenario estremamente desolante, per lo più disabitato, povero di alberature, luogo per agguati mortali lontano da occhi indiscreti. Di questo triste panorama alla fine del XIX secolo poco o nulla era cambiato.

Descrivere il territorio è argomento di difficile trattazione, che potrebbe risultare lenta e noiosa, per questo motivo ho tentato una esposizione sui generis, attraverso un racconto breve ambientato nei primi anni successivi all'unione di Roma all'Italia, ricco di particolari descrittivi del territorio oggetto di questo studio. Spero che sia gradito.

IL MARE DI ROMA

Era giunto a Roma da pochi mesi, da quando il suo ministero si era trasferito nella nuova capitale del Regno. Piemontese di nascita non aveva mai visto il mare e il trasferimento a Roma lo aveva eccitato per questo. Roma era sul mare o quanto meno era vicinissima, pochi chilometri meno di trenta. Presto, però, si accorse di vivere in una città mentalmente lontana dalla sua costa. La separava la campagna a corona della città e la malaria, sovrana dispensatrice di morte in quelle terre. Nelle prime ore del mattino di una fredda giornata di fine marzo prese la decisione. Lasciò la sua pensione di via della Bocca della Verità accompagnato da Prospero il figlio del locandiere che avrebbe dovuto fargli da guida lungo questo viaggio. Prospero la zona la conosceva ed anche la malaria, ma questa non era riuscita a rapirlo alla vita ma aveva lasciato il suo segno nelle febbri che periodicamente lo colpivano all'improvviso, violente. Salirono a cavallo e cominciarono a percorrere la strada di Marmorata stretta tra il Tevere e l'Aventino da qui giunsero all'arco di S. Lazzaro ed ai prati del popolo. Era questa un'ampia piana alluvionale tutta coltivata a vigne ed orti, rarissime le case, con in fondo il monte Testaccio con le sue grotte piene di vino e le mura aureliane a fare da guardia alla città. Varcata porta S. Paolo cominciarono a percorrere la via Ostiense che correva dritta tra le vigne. A destra il fiume si snodava lento tra i canneti, a sinistra prendevano forma una serie di piccole colline incise sui fianchi dalle marrane. La prima di queste l'incontrarono all'altezza della chiesa della separazione, la marrana dell'Almone fu superata facilmente grazie al piccolo ponte. All'osteria della "Garbatella" si fermarono a bere una fojetta per asciugare le ossa dall'umidità, ma in gran fretta, il viaggio era solo all'inizio. Dopo poche centinaia di metri la prima emozione: un "immenso granaio di marmo bianco" spiccava tra il verde delle canne palustri ed il giallo verdognolo del fiume che lambiva l'edificio quasi volesse abbracciarlo, era la basilica di S. Paolo. Forse fu il vino bevuto di prima mattina ma ebbe un senso di stordimento al contatto con questa maestà olimpica, forse i templi antichi dovevano essere così. Non c'erano case non c'era gente solo un paio di viottoli s'incontravano vicino alla chiesa. Chiese a Prospero se fosse frequentata - non spesso, non è una parrocchia, viene gente solo per alcune feste. Vede quel viottolo che sale su per la collina è la via delle Sette chiese che porta al "Quo Vadis", la percorrono solo i pellegrini, quell'altro è il vicolo di Grotta perfetta porta al casale omonimo, più giù c'è il vicolo delle statue, sono stradine percorse da pastori e vaccari per andare giù al ponticello sul fosso di Grotta perfetta dove c'è l'osteria e qualche volta puoi trovare anche delle signorine facili. - Così disse mentre procedevano il cammino, sulla destra una vasta piana acquitrinosa ricca di tamarici. Più andavano avanti e più i segni dell'uomo diventavano rari, solo qualche "lestra" umile ricovero per pastori fatto di canne e frasche, non c'erano più vigne ma solo una landa stepposa incisa dai fossi. Al fosso di Malafede si fermarono a far riposare i cavalli, li attendeva una breve salita su fino al casale di monte S. Paolo da dove avrebbero visto il mare all'orizzonte. Giunti sul monte una leggera foschia ritardò il suo desiderio, ma altro si presentava al proprio occhio. La strada procedeva in un dolce declivio verso l'orizzonte, sulla sinistra una immensa macchia verde di sugheri e querce, macchia Saponara, macchia Palocco, davanti ed a destra una grande palude, lo stagnone e le saline del borgo di Ostia. Qui trovarono poche persone, una manciata di esseri umani, forse meno di cento vivevano in quel luogo così vicino alla capitale del Regno ma lontano mille chilometri dalla civiltà umana. Eppure una volta qui doveva essere diverso, pensò, basta guardare i resti d'epoca romana per capirlo, cento volte più grandi di questo borgo derelitto. La via Ostiense era terminata, gli ultimi chilometri, meno di tre, li avrebbero percorsi fuori pista, tra le dune ricoperte di macchia mediterranea. La brezza fresca portava odore di elicriso, un rumore insolito e costante colpì la sua attenzione, salì su di una duna più alta e lo vide immenso e blu, il mare di Roma.


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